Estratto dell’articolo di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni per “Robinson – la Repubblica”
Caschetto piramidale un po’ scarmigliato, occhiali tartarugati, camicia bianca, giacca, jeans con risvolto e stivali da cowboy. Il costume di scena metropolitano meriterebbe di essere protetto da copyright.
D’altra parte Fran Lebowitz, autrice satirica e umorista, eccezionalmente anche attrice, non è solo un’istituzione della cultura newyorchese e americana in generale, ma è considerata – con suo grandissimo stupore – anche un’icona di stile.
Oggi è la massima esponente di un genere, il public speaking, che si è cucito addosso alla perfezione per beffare la maledizione del blocco dello scrittore che la perseguita da più di trent’anni. […] è diventata una storyteller di professione, con tutti i rischi del mestiere, primo tra tutti la vischiosità dei confini del politically correct contemporaneo.
[…] «Nessuno può permettersi New York. Eppure, ci vivono otto milioni di persone», una delle battute più vere e famose. La formula è collaudata e riproposta nel suo “never ending tour”. Dopo qualche minuto di chiacchierata a ruota libera con l’ospite di turno, Fran resta sola sul palco e interagisce con il pubblico che è obbligato a urlare le domande senza microfono; la folla, poi, si accoda religiosamente per un selfie e una firma su The Fran Lebowitz Reader, il libro che raccoglie i bestseller Metropolitan Life del ’78 e Social Studies dell’81 (La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire, Bompiani).
La fila è eterogenea. I più anziani la ricordano dai tempi ruggenti della Factory di Andy Warhol e della collaborazione con la sua leggendaria rivista Interview. I giovani, invece, l’hanno scoperta di recente, grazie al documentario Netflix del 2021 di Martin Scorsese, Pretend It’s a City, (il secondo dell’amico “Marty”, dopo Public Speaking del 2010) dedicato al rapporto ossessivo di amore e odio che Fran ha con New York.
Soprattutto con Manhattan, dove ha messo radici negli anni Settanta, in fuga dal New Jersey e dall’asfissia culturale di Morristown, la cittadina in cui è nata nel 1950, da immigrati ebrei. A ragione, accogliendola in un episodio del suo podcast, Hillary Clinton le dà il benvenuto dicendo: «Sembra di avere tutta New York seduta in questa poltrona».
[…] nonostante sale e teatri sold-out, oggigiorno fare satira è complicato anche per lei. «Questa era metterebbe in difficoltà persino Jonathan Swift», ci dice con l’inconfondibile cadenza sincopata. È lei a chiamarci da telefono fisso all’ora concordata con il suo staff. Sì, perché Fran è l’unica newyorchese a non possedere un cellulare e neppure un computer o una connessione a Internet. «Se mi dovessero cancellare dalla rete, per favore non me lo dite», ha spesso scherzato.
Molti suoi colleghi ormai fanno autocensura, davvero sta finendo lo spazio per la satira?
«È impossibile essere un autore satirico di questi tempi. Il problema non è tanto oltrepassare i confini, ma la realtà in sé diventata così estrema. Penso questo: ci sono cose orribili che davvero non andrebbero dette, altre sono esagerazioni. Questo tipo di correttezza politica o woke è fondamentalmente un movimento creato dai giovani e per questo, ovviamente, ha per natura sfumature che sono sciocche, altre estreme.
Ecco, queste mi irritano perché portano a rigettare (anche) le cose importanti. Infatti, si inizia con argomenti reali e orribili, come il razzismo, ma poi si va avanti fino a vietare piccole cose che non fanno male a nessuno. Di ora in ora cambia ciò che si può o non si può dire, in base al trend. Ecco, quando si esagera e si diventa estremi, si provocano reazioni pericolose, come quelle dei repubblicani. Loro sono più dannosi della più sciocca delle battaglie woke».
Lei come si comporta?
«Quando giro il Paese durante i miei incontri con il pubblico, se ci sono concetti che sarebbe meglio non dire, anche se secondo me si potrebbe, esordisco sempre così: “so che non è permesso dirlo, ma non sono in realtà cose così brutte”. È diverso quando le persone cercano di rimangiarsi quello che hanno detto con un “non intendevo quello”. Se dici qualcosa di orribile è perché l’hai pensato!».
Nonostante le difficoltà, i comici americani sono sempre molto seguiti.
«Ce ne sono ancora tanti molto bravi. Il punto non è cosa sia o non sia divertente, ma l’idea di ciò che dovrebbe esserlo. Molti di loro si lamentano e trovano il contesto in cui stiamo vivendo vincolante. Per me non è così. In realtà, credo non ci siano mai stati tanti comici come ora, quindi immagino abbiano trovato altri argomenti di cui parlare.
Ci sono sempre stati quelli tacciati di misoginia e razzismo e io sono felice di non seguirli. In fondo, il modo più facile e veloce per far ridere è quello di denigrare qualcuno. Io non l’ho mai trovato divertente e non l’ho mai fatto, a meno che non stessi parlando di politici. In quel caso si vince facile».
In un contesto del genere, come riesce ad alimentare ancora il suo processo creativo?
«Sto molto per strada, cammino tanto, prendo la metropolitana. Osservo. Negli ultimi anni mi pare di essere l’unica persona che presta attenzione. Tutti gli altri sono chini sui cellulari. Se guardi il telefono è in quel mondo che ti trovi. Sostituisce la tua geografia. Lo schermo ti fa concentrare su te stesso, non su quello che ti sta intorno. Chiedo spesso alla gente cose del tipo: ma quel palazzo quando è stato demolito? E loro rispondono: quale? Quello che si trovava all’angolo di casa tua, come hai fatto a non vederlo? La gente non nota più nulla. È un’incredibile ricchezza: ho tutto il mondo per me». […]
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Il genere del “public speaking” porta il suo volto. Lo trova uno strumento più potente della scrittura?
«Sicuramente rispetto alla penna, ogni mezzo è più facile per arrivare alle persone, visto che alla gente non piace leggere. L’unico motivo per cui io ho cominciato è perché stavo incontrando davvero troppe difficoltà con la scrittura. Anche se non mi mette in buona luce dirlo, la verità è che non pensavo agli altri, ero concentrata su me stessa. Mi sono detta: Fran è troppo difficile per te scrivere, ma trovi facile esprimerti con la voce. Quando ho scoperto che mi avrebbero anche pagato, ho iniziato a farlo».
[…] C’è chi crede che dopo la pandemia New York abbia perso un po’ di fascino.
«Non saprei cosa intendono. Nessuno la ama più di me, ma non la descriverei mai affascinante e neppure bella. Non siamo mica a Firenze o a Roma! È sempre stata sfibrante e lo diventa ancora di più per chi invecchia, come me. Siamo tanti, costipati in una superficie limitata.
Lo skyline di Manhattan è cambiato negli ultimi 20 anni, per via di questi nuovi edifici sottili e altissimi. Personalmente non mi piacciono, ma è così che vive la gente, stretta insieme. La densità è ciò che rende New York quella che è. Negli Usa ci sono Stati giganteschi in cui non abita quasi nessuno; nulla di più noioso».
A proposito di folla, ha sentito l’idea di trasformare Times Square nella Las Vegas della costa est, con i casinò? Che ne pensa?
«Odio la piazza da quando l’hanno ripulita. Non che l’amassi prima. Negli anni Settanta era un postaccio con cinema porno e imbroglioni delle tre carte per strada. A un certo punto, hanno deciso di trasformarla in un’attrazione turistica, per risanare i conti della città vicina alla bancarotta.
Ora i forestieri ci vanno per mangiare da McDonald’s o da Dunkin’ Donuts, catene che trovano in ogni singolo Stato. A quanto pare l’unica cosa che non hanno a casa loro è l’elettricità, a giudicare da come restano impalati a fissare le luci. Anche Broadway è ormai spazzatura che piace ai turisti; in passato il teatro era fantastico».
Davvero i musical, che attirano persone da tutto il mondo, non le piacciono?
«Non li sopporto. Siccome portare in scena qualcosa è incredibilmente costoso, gli organizzatori cercano di creare spettacoli che possano essere apprezzati dalla maggior parte delle persone. Di solito, quello che è pensato per la massa a me non interessa, sono le cose meno belle. Oggi, l’ultimo turno credo inizi verso le sette o le sette e mezza, negli anni Trenta il teatro apriva alle nove.
Non si pensava a come le persone sarebbero rientrate nelle loro case in periferia, o al turno di lavoro della babysitter. Oggi è tutto incentrato sulle famiglie. New York però è ancora piena di giovani che scrivono opere. Se fossi io al comando, porterei un po’ di buon teatro, così anche i locali andrebbero a vederlo. Durante il lockdown, la gente ha iniziato a lamentarsi perché non c’era più nessuno a Times Square. La città avrebbe avuto l’opportunità di trasformare la piazza in un posto in cui i newyorchesi sarebbero finalmente voluti andare. Ma a quanto pare non è quello che stanno cercando di fare. Di certo nessuno mi ha mai chiesto consigli! Né quando avevo vent’anni, né oggi che ne ho 73».
[…]
Una delle sue battute più celebri riguarda l’ammasso di gente concentrata in città, nonostante si dica che il costo della vita sia insostenibile. Bisogna ammettere che molti più che vivere, sopravvivono.
«È la più costosa d’America, è vero. Si potrebbero fare tante cose, se i ricchi pagassero le tasse. Certo, anche l’Italia è famosa per l’evasione fiscale! Ma a New York City mi sembra di essere l’unica contribuente. Ci sono edifici dove gli appartamenti costano 40, 100 milioni di dollari e a volte sono vuoti. È perché vengono usati per riciclare denaro da tutto il mondo.
Se la gente pagasse le tasse e gli immobili non fossero usati per il riciclaggio, ci sarebbe una gran differenza. È dagli anni Sessanta che non vengono costruiti alloggi pubblici. New York è molto ricca, potremmo permetterci case popolari. È terribile avere gente estremamente abbiente e gente incredibilmente povera».
Quando si è trasferita qui ha fatto di tutto — la tassista, la domestica, la barista — prima di rivelarsi scrittrice cult. È ancora valido l’adagio «se ce la fai a New York, puoi farcela dappertutto»?
«Sì, anche se può sembrare banale, come il testo di una canzone. Tante volte, ad esempio, mi sono sentita dire: devi incontrare questa persona, è molto famosa a San Francisco. Bene, penso, ma ciò non la rende famosa a New York. Al contrario, se ti fai conoscere qui, allora sarai noto anche in California. Ovviamente, so che non stiamo parlando solo di fama, il punto è che non c’è posto più competitivo. Se vuoi avere successo a New York in qualsiasi campo, troverai un miliardo di altre persone che cerca di fare esattamente la stessa cosa. C’è molta gente a cui questo spirito non piace, per questo non dovrebbe venire a vivere qui».
Pensando alle nuove generazioni, ha detto che non vede nessuno che potrebbe prendere il suo posto. Perché?
«Sono l’unica persona che conosco a non avere iPhone e computer. Sarebbe impossibile non averli se avessi vent’anni. Significherebbe non partecipare alla vita. Ai ragazzi non succede nulla che non abbiano visto in rete; la loro vita è in quel telefono. È per questo che quando qualche idiota lascia cadere per errore il cellulare sui binari della metropolitana, cerca di scendere a riprenderlo. Per me è meglio perdere il telefono che la vita; per loro, invece, non c’è differenza tra la vita e il telefono».
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