Si muove tutto intorno a una domanda: perché non ascoltiamo più noi stessi? il nuovo thriller di Joel Dicker, ‘Un animale selvaggio’ (La nave di Teseo).
“Viviamo in un mondo in cui siamo ossessionati dagli altri e dai noi stessi. Siamo su Instagram, Facebook e ci aspettiamo che gli altri ci diano l’ok a quello che facciamo. Utilizziamo dei filtri e appariamo diversi da come siamo in realtà” dice Dicker accolto come una star al Salone del Libro di Torino, con lunghissime code per entrare all’Auditorium già da oltre mezz’ora prima che iniziasse uno degli eventi più attesi della kermesse.
Grandi applausi hanno accolto sul palco lo scrittore svizzero super bestseller, subito in testa alla classifica dei libri più venduti in Italia con il nuovo thriller partito con una delle migliori performance di sempre. “Grazie, grazie. L’Italia è come se fosse casa mia, la mia famiglia. Mia nonna era triestina.
Grazie di questa ospitalità fantastica” sorride Dicker in dialogo con Linus. “Non so ancora quale sarà il prossimo passo, ma la cosa più importante per me, ora che questo libro esce in Italia, il paese di mia nonna e del mio cuore, è rendermi conto di quanto i lettori mi siano vicini. Mi seguono con affetto, mi incoraggiano, hanno fiducia in me e mi accompagnano nel mio percorso” afferma. “Fino a che punto i nostri comportamenti sono definiti dalle aspettative degli altri e non dalle nostre?” Queste sono le questioni da cui è partito Dicker in ‘Un animale selvaggio’ in cui lascia l’ambientazione americana del Maine per un contesto più familiare e contemporaneo, la sua Ginevra natale, con due coppie di protagonisti coinvolti loro malgrado in una rapina e intrappolati in un intrigo diabolico, dal quale nessuno esce indenne. “I miei romanzi ambientati nel Maine sono senza tempo.
Quelli che si svolgono a Ginevra sono di ambientazione contemporanea perché io vivo lì” spiega l’autore fenomeno editoriale mondiale della trilogia di Harry Quebert, conclusa con ‘Il caso Alaska Sanders’. ‘Un animale selvaggio’, il suo settimo romanzo, segna una nuova svolta nella sua carriera. “Bisogna scrivere un po’ a caso come quando si percorre un cammino, senza sapere dove si stia andando. I lettori ogni volta che c’è un colpo di scena dicono ‘non è possibile'” racconta, parlando del suo processo creativo.
“Scrivere è come una maratona. Bisogna seguire il programma. Ad un certo punto si sentono le difficoltà, la fatica ma è anche questo il bello. Quando si corre non si corre per vincere, per fare la competizione. La scrittura non è qualcosa contro qualcuno, si fa per se stessi” sottolinea mentre il pubblico lo ascolta incantato. “Scrivo sempre all’alba, alle tre del mattino. Anni fa avrei detto che ho un ufficio dove vado a scrivere in tutta tranquillità. Ora è diverso, ho tanti collaboratori, i figli. Scrivo dove posso nascondermi”.
Per restare nella tradizione anche questo thriller sfiora le 500 pagine. “Non penso ai lettori quando scrivo, piuttosto sono in relazione con me stesso, parto da un’osservazione. Non voglio fare piacere ai lettori, ma avere una condivisione con loro”.
Quale personaggio le assomiglia di più? “Nello sguardo verso il mondo, non per la trama dei libri, Harry. Comunque lo sguardo sul mondo cambia con le tappe della vita. In Un animale selvaggio non a caso sono tutti sulla quarantina, mi identifico con la loro età”, mentre “la responsabilità – dice – è il filo conduttore di tutti i miei libri”. Prima di Harry Quebert, Dicker aveva scritto tanti romanzi ma “gli editori mi avevano detto di no. Quando ho iniziato a scrivere quel libro mi sono detto che poi avrei smesso, era l’ultima volta. Poi ho avuto successo e ho fatto una trilogia, ma l’idea la avevo già. Elisabetta Sgarbi aveva acquistato i diritti di Quebert prima del mio successo, sulla fiducia. Sono molto grato a lei e ho un forte legame con l’Italia. Ovviamente il primo paese che mi ha apprezzato è stata la Francia perché scrivo in francese”.
Cosa avrebbe fatto se non avesse funzionato Quebert? “Avrei sempre scritto perché scrivere per me è un bisogno”, risponde lo scrittore ginevrino al quale non piacciono “i romanzi gialli con troppa tecnologia. Mi piace ci sia una sfida nei miei libri, fornisco al lettore tutti gli strumenti per risolvere il caso.
Tutto questo nasce dalla voglia di scrivere storie che capirei io come lettore” racconta. Dicker non ama neppure gli ambienti troppo violenti e se c’è il morto “non mi piace descrivere la scena con molti particolari”. Quanto ai colpi di scena, come il resto, “non si possono pensare prima”.
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